All’inizio della seconda guerra mondiale, l’economia della regione Toscana era ancora segnata dalla forte presenza dell’agricoltura. L’industria, pur essendo sviluppata solo in alcune aree e solo in alcuni settori, aveva una certa importanza e una discreta quantità di addetti. Accanto a questi settori l’artigianato aveva tradizionalmente un peso importante nell’economia della regione. Minore ma comunque di una certa consistenza e tradizione, almeno nei centri urbani, era il peso del terziario: amministrazione, servizi e trasporti (si pensi, ad esempio, agli interessi bancari e finanziari dell’aristocrazia e dei ceti dirigenti toscani). La guerra impattò su tutti questi settori ostacolandoli, deformandoli, indebolendoli.
L’agricoltura, la mezzadria
La metà della popolazione della Toscana era impiegata nel settore agricolo, dove la mezzadria era la forma tradizionalmente dominante nella gestione delle campagne.
L’ascesa e l’affermazione del fascismo nelle campagne toscane erano avvenuti a sostegno dei proprietari e a scapito dei mezzadri, che a partire dall’inizio degli anni Venti avevano visto il progressivo smantellamento delle conquiste sociali ed economiche ottenute nei vent’anni precedenti grazie a un’intensa serie di scioperi, lotte ed estenuanti trattative con i proprietari terrieri e con le loro potenti associazioni. Le campagne erano state ridotte al silenzio dallo squadrismo molti proprietari avevano nel contempo assunto cariche politiche locali, come il podestà o il federale, assicurandosi in tal modo poteri istituzionali. La condizione dei mezzadri subì così peggioramenti notevoli nel corso di tutti gli anni Trenta: i contratti di mezzadria tornarono sotto il pieno controllo padronale e molte consuetudini furono stravolte a tutto vantaggio della grande proprietà agraria.
Per le famiglie mezzadrili toscane, il ventennio fascista significò l’arresto e l’inversione di un andamento economico positivo. A partire dalla metà degli anni Venti, il valore dei beni principali prodotti dai poderi toscani – olio d’oliva e vino – aveva conosciuto un crollo deciso e nel contempo, a causa della fillossera, i costi di gestione dei vigneti erano aumentati notevolmente. Negli anni Trenta si era assistito dunque a un crollo del reddito mezzadrile che aveva generato nelle campagne un malcontento diffuso e una silenziosa presa di distanze nei confronti del regime, che comunque non era mai diventato popolare in quel contesto.
La guerra non poteva migliorare questa situazione.
Durante il conflitto, dalla Toscana mezzadrile giunsero segnali di distacco nei confronti delle richieste del regime che lo aveva scatenato, privando le campagne di una parte importante degli uomini, dei lavoratori più giovani e in forze. L’ammasso forzoso, per esempio, fu spesso disatteso, mentre i produttori tendevano a tesaurizzare o a scambiare al mercato nero i prodotti della terra.
Dopo l’armistizio e durante l’occupazione tedesca, la situazione peggiorò ulteriormente. Molti materiali agricoli (i prodotti azotati, per fare solo un esempio) iniziarono a scarseggiare e i raccolti furono messi in pericolo. Come reazione, gli ammassi furono ancor più disertati mentre il mercato nero divenne la maggiore piazza di scambio dei prodotti. Inoltre le famiglie mezzadrili, che vedevano il rischio di perdere i propri giovani a causa dei “bandi Graziani” per la leva alla Rsi, cercarono di metterli al sicuro, dando anche per questa via un contributo importante di partecipazione e sostegno alla Resistenza, vista anche come inizio per una rinnovata lotta contro la proprietà agraria.
Al termine del conflitto, i mezzadri assunsero un peso politico determinante e nell’immediato dopoguerra nelle campagne toscane la lotta si sarebbe riaccesa, nel tentativo di ribaltare i rapporti di forza pregiudicati dal fascismo e poi dalla guerra. Alla fine degli anni Quaranta la mezzadria occupava ancora circa il 46 per cento dell’intera superficie agraria della Toscana e quasi il 70 per cento di quella coltivabile.
L’industria e la manifattura
Alla fine del primo decennio del Novecento, la Toscana poteva già vantare un settore manifatturiero piuttosto sviluppato, almeno nel quadro di quello che era lo stato generale dell’industria italiana. Tra le regioni italiane, la Toscana era infatti terza per numero di imprese e quarta per numero di addetti. Ma si trattava di una graduatoria destinata assai presto a cambiare: il triangolo industriale italiano (Torino-Milano-Genova) si sarebbe formato a nord, con la Toscana esclusa dagli insediamenti più moderni e consistenti.
Ciononostante, la presenza di alcune grandi fabbriche e di un reticolo di medie e piccole manifatture continuò a fare della Toscana una regione con una non trascurabile presenza operaia. La mezzadria e l’agricoltura rimanevano maggioritarie nel loro apporto alla sua ricchezza ma non erano nient’affatto esclusive.
È in questo quadro che devono essere tenuti presenti le realtà industriali e minerarie (il 90 per cento di tutta la produzione nazionale di minerali ferrosi nei primi anni Venti), del polo siderurgico di Piombino, degli insediamenti votati alla produzione di energia idroelettrica, termoelettrica e geotermica, tessile (cotone e lana, forte nelle zone di Prato, Lucca e Pisa), delle concerie e della lavorazione del cuoio (in tutto il Valdarno inferiore), della produzione vetraria (a Pisa con gli stabilimenti Saint-Gobain) e della ceramica (Richard-Ginori di Sesto Fiorentino), delle industrie metalmeccaniche di Livorno (cantieri navali Oto), Firenze (Officine Galileo e Pignone) e Pistoia (Officine San Giorgio), o di alcuni nuovi impianti importanti (come la Solvay di Rosignano e la Piaggio di Pontedera).
La guerra ebbe un impatto contrastato su questa realtà industriale toscana.
A partire dal 1940 essa fu piegata alle esigenze del conflitto conoscendo una forte accelerazione. Le esigenze belliche aumentarono le necessità e la produzione, per quanto il regime non sempre riusciva a far affluire le materie prime necessarie. L’arricchimento dei proprietari e lo sfruttamento della manodopera crebbero parallelamente. La classe operaia riuscì a mantenere, come in tutt’Italia, alcune vecchie conquiste e, in un Paese piegato dal carovita, il valore salariale venne in genere difeso. Questa realtà spiega ad esempio la partecipazione operaia agli scioperi, anche in Toscana, del marzo 1943.
I bombardamenti anglo-statunitensi del 1943 (a partire da quelli sul porto di Livorno) e poi la crisi del regime e l’aprirsi della fase della Rsi nel settembre dello stesso anno misero in crisi tutto questo assetto. L’afflusso delle materie prime si fece sempre più difficile, la produzione più incerta, le vessazioni e la diretta asportazione di risorse da parte degli occupanti nazisti, non ostacolati dalla Rsi collaborazionista, misero in ginocchio la produzione anche in Toscana. I bombardamenti e il passaggio del fronte nel 1944 fecero il resto. Non deve stupire se, in questo quadro e in questi nuclei di classe operaia, la Resistenza antifascista trovò nei luoghi di produzione forti punti di appoggio. Quando, nell’estate 1944, la Toscana fu liberata quasi per intero, l’industria della regione era in gran parte da ricostruire.